Rami fossili 2009
Per un’ estetica del resto: ovvero oltre il valore politico del consumo
di Gabriele Montagano
Le cose finiscono. Muoiono. È nella loro natura dissipare la propria esistenza nell’atto definitivo della sparizione. Ma quale destino per il residuo di esistenza, per l’ombra che la vita lascia come ferita di presenza nel mondo delle cose. Un filosofo può solo porre la questione.
È la mitologia della vita diffondere i segni dell’esistenza nell’incontro con il mondo. Rendere il latente esistente. E l’arte mette in evidenza il vivere la latitanza con la lacerazione del suo discorso sovversivo: fare immagine, ferire la realtà, usare la vita lasciando che le cose parlino con una lingua densa. Sgranare la visione del mondo come un frame. Cornice infranta, l’arte si esprime in quella zona clandestina dell’esistenza dove il pericolo è la condizione necessaria per essere. Per esserci. Per esistere. Non costruisce, dissìpa. Questo è il suo fascino. Non resta: è una resa continua alla libertà.
Quando incontra il mercato è fascino puro: si declina nel trendy - fashion - style. Quando incontra la vita è ciò che resta della vita stessa: il simbolo estremo e colto di una civiltà. Quando incontra la critica è una grande bugia, ragione su ciò che non esiste. È già archeologia.
L’arte purifica la visione, ci restituisce l’occhio di Calvino, la grazia dello sguardo innocente della verità delle cose mentre ci sporca con il sentire. È ontologicamente vita attraversando l’esistenza degli oggetti; rende una lingua all’esistenza con la quale dire, catalogare la visione.
Tutto questo si impone nell’esperienza artistica del gruppo LALOBA. Con leggerezza e intensità.
Tre donne, artiste visionarie che scolpiscono i luoghi per farne affiorare l’identità segreta, lavorano con ciò che resta della materia, della vita, vanno incontro al destino e - passando attraverso la vita - lo trapassano Una comunità di artiste che sta all’arte percorsa dalla sua stessa decomposizione. I manufatti che producono sono l’approssimazione alla morte dell’oggetto, vivono attraverso la rarefazione del corpo; ciò che resta della materia prende forma potente nell’attraversamento, nella trasparenza che è continuo sconfinamento del limite. Lo spazio che occupano, attraversandolo e facendosi attraversare dal dolore della vita, si offre come luogo della memoria patica.
In questo luogo cognitivo prende forma ciò che “si nasconde e si avvera” lavorando alla consistenza dell’arte, a ciò che affiora e si impone con sensualità ed effimera presenza. Si fa arte anche nel rifiuto. La sua dimensione dissolutoria, la sua poesia sta nel rinviare ad una improbabile esposizione universale di merci scadute. Di vite che sono state. È qui che il mondo incontra il proprio futuro. L’opera qui ha una seconda vita nel senso che vive una sua esposizione, un racconto, “una disseminazione” mediatica. Il resto di un’opera è il “resto di niente”. Questa materia immateriale si trasforma in arte da esporre. In miasma da annusare. In natura da accogliere. Rami fossili.
E come d’incanto quando un oggetto prende forma, compare sulla scena, traccia intorno a sé un cerchio magico. Catalizza con la poesia della sua esistenza la vita del mondo che abita.
Il lavoro della LALOBA è politico. Altera la semantica dei processi culturali rinviando ad una potente ristrutturazione dei linguaggi, ad una archeologia della vita che nella condizione post-moderna accelera il ciclo di vita di un oggetto sino a produrre in vita la sua esistenza postuma. Prende corpo un’estetica della esposizione del rifiuto, del resto, oltre il valore politico del consumo. Esportato in ogni dove questa immagine appartiene a tutti. È il nostro panico. Può essere allocata distrattamente, ma i sui manufatti leggeri, vuoti, occupano lo spazio con una forza attrattiva che solo l’essenziale sa esprimere. Sono autopoieutici, generano senso. Sono oggetti che mettono in piazza senza pudore ciò che il mondo nasconde. Gridano il conflitto isterico tra il mercato, la merce ed il desiderio. Aprono e affondano nella ferita della vita che solo con l’eccesso può essere pulita.
Qui s’incontrano Marx e Lacan: la fatica della produzione come processo di modernizzazione ed il residuo della fascinazione del desiderio come idea di vita. Dovunque il corto circuito del ciclo di vita produttivo delle “cose” viene sedato fino all’etica della rimozione.
Nelle opere de LALOBA questa intermittenza esplode in tutta la sua grandezza, in tutta la sua necessità: siamo invasi e pervasi da ciò che il nostro desiderio ha mosso e da ciò che resta come traccia, soffio di esistenza sporcata dalla vita, grana fragile di una lingua che deve riscrivere il proprio alfabeto per raccontare se stessa. Le opere del gruppo LALOBA hanno a che fare con il rifiuto, il resto e l’idea ad esso legata di rimozione culturale e materiale. I segni che gli oggetti portano come resto di vita sono liberati da una esistenza forzata, vivono una seconda vita lontano dalla stessa degenerazione chimica per alimentare il flusso delle immagini. Si fanno liquidi ed invasivi; dicono e raccontano altrove il loro valore. Attraversano il topos centrale nella riflessione contemporanea ovvero il legame tra leggerezza e sparizione. Come ci hanno dimostrato Jean Baudrillard e Paul Virilio siamo solo in apparenza una società della produzione e della proiezione, dove tutte le cose vengono generate, esibite. Siamo invece una società della sottrazione in cui le cose hanno una vocazione a sparire sotto il loro stesso accumularsi, senza senso e senza memoria.
La realizzazione delle opere, o meglio la costruzione, la “messa in esistenza” delle Sculture Fossili sono un laboratorio antropologico dove le cose esistono per necessità di condivisione; nascono nel laboratorio di produzione con la comunità locale dove prende vita e corpo la scultura del gruppo. Abitano l’identità di un luogo e lo rappresentano come parte integrante della comunità che vi opera. Questa operazione nel contempo etica ed ecologica alimenta la scena produttiva dell’opera stessa; la procedura di cui si servono è parte di un metodo: l’arte sperimenta la socialità estesa della comunicazione, il consumo partecipato e delocalizzato, la perdita di valore della materia e la materialità della vita. I fossili, le sculture fossili con la loro fragile esistenza sono la location ideale della forma estrema della democratizzazione dell’opera d’arte come fruibilità e consumo. Così nell’essere forma liquida della socialità, le sculture danno luce con la propria assenza e sostanziano una comunicazione sovversiva come può fare solo un gesto estremo e perciò tenuto in vita dal desiderio. Danno vita alla pulsione originaria del desiderio di esistere che è latente in ogni esistenza.
Nelle opere de LALOBA non c’è salvezza: nel senso che la contaminazione è un atto necessario di esistenza. Ci dice che ciò che produciamo in maniera ossessiva ci raggiunge e ci restituisce democraticamente il nostro residuo dovunque siamo. Attualizza il nostro passato, la nostra paranoia. In questo luogo della vita estrema declinata come atto sovversivo Faucault avrebbe percorso “l’ontologia del presente” attraversando semplicemente la verità che gli oggetti portano con se in maniera silente e che si esprime negli interstizi della vita, nell’atto distratto di esistenza.
C’è un metodo nella inquietudine sociale della ricerca artistica de LALOBA: tenere vivo il desiderio, lasciarlo esistere come progetto, praticare l’eccesso come dispositivo conoscitivo per smascherare le forme seduttive del consumo.
I rami fossili, le sculture, si impongono, sono chimere, sono lingua e visione di un ossimoro declinato. Incontrano la vita attraversando la morte. La fine.
Ci ricordano che clandestina è la condizione della vita che stenta ad esistere. In questo luogo si muore, ogni volta, profughi. Qui incontriamo la vita, sedotti in quella distorsione dell’esistenza che è distrazione. Abbandono.
Dove è la vita? E’ sempre altrove il nostro destino…