È morto il miele? 2014

Fornace Falcone Montecorvino Rovella

Un’interrogazione sull’ape molte interrogazioni sull’uomo
di Giuseppe Limone

Renata Petti e Anna Crescenzi ci presentano un’ape. Alta sessanta centimetri, lunga tre metri, larga un metro. Montata con pezzi eterogenei e connessi: filo di ferro zincato, colombino di paglia, spago di canapa, rami di nocciolo.
Davanti a quest’opera tre domande sembrano essenziali. Perché un’artista mette in scena un’ape? Perché la costruisce come montaggio di pezzi? Che cosa ci esprime l’ape con la sua identità?
L’ape è stata da millenni al centro dell’attenzione umana. Nella storia letteraria dei popoli occupa un posto di prima grandezza. Può essere, forse, illuminante scavare nell’inconscio di questa attenzione. 
Perché l’artista ci presenta un’ape? Perché è una creatura dell’universo. Perché la monta con pezzi disparati? Perché è una creatura fatta degli stessi pezzi con cui è fatto l’universo. Che cosa l’artista ci esprime con l’identità dell’ape? L’attività dell’ape sorprende. Essa è originale, laboriosa, sociale. Ciò che ha sempre colpito lo sguardo umano è lo straordinario laboratorio comune realizzato dall’ape, insieme con la matematica esattezza nella scansione dei tempi e degli spazi. Il miele, la pappa reale e la cera sono stati da sempre prodotti di civiltà.
L’ape è diventata, in questo orizzonte, il prototipo di un’utopia sociale pensata secondo i criteri combinati della fecondità e dell’esattezza. Ma all’attività dell’ape soggiace una domanda, che perennemente ritorna: donde ricava la colonia delle api il suo progetto? Il pensiero liberale ha assomigliato la colonia delle api a un’attività sociale virtuosa, in cui i singoli istinti concorrono a un’opera comune. È celebre La favola delle api di Bernard de Mandeville, così come celebre è l’aforisma  liberale sui vizi privati e sulle pubbliche virtù. Ma un’altra parte del pensiero moderno (Karl Marx) ha reagito diversamente: individuando proprio nella dimensione del progetto intelligente ciò che differenzia la comunità umana dalla colonia delle api. L’uomo può progettare, l’ape no. L’uomo pratica la ragione, l’ape l’istinto. Ma qui un’ulteriore domanda può riproporsi, a un livello secondo: potrà un giorno l’azione sociale umana riprodurre in termini di ragione ciò che l’ape produce semplicemente con l’istinto?
Se ciò l’uomo riuscisse a fare, si accorgerebbe di poter socialmente realizzare, in termini di ragione, ciò che l’ape naturalmente realizza in termini d’istinto: una messa in comune di parti all’interno di un intero. Un’armonia sociale. In una tale utopia la comunità umana dovrebbe liberamente realizzare ciò che la colonia delle api realizza per istinto. Dovrebbe trasformare l’alfabeto degli istinti nell’alfabeto delle libertà. L’attività collaborativa delle api, stupefacente lavoro di un’orologeria biologica, fa irresistibilmente  pensare a una complessa macro-unità di cui le singole api siano semplicemente i terminali. Una domanda, a questo punto, è possibile: deve pensarsi la colonia a partire dalle singole api o debbono pensarsi le singole api a partire dalla colonia? 
In questa seconda frazione della domanda (prospettiva della totalità), la singola ape appare non più come individuo, ma come parte matematicamente connessa all’interno di un insieme che ne determina le funzioni in maniera decentrata. Siamo, qui, nell’orizzonte di un’armonia prestabilita.

Il mondo di Internet oggi, presentandoci come individui inestricabilmente connessi in una rete, sembra avviarci, fatte le debite differenze, a una medesima metafora. Gli uomini appaiono connessi come api. All’Internet informatico tra uomini sembra corrispondere un Internet socio-biologico tra api. Come le api realizzano un alveare, gli uomini realizzano – o possono realizzare –  una noosfera. Resta certamente in questo orizzonte, e resterà sempre, questione insuperabile,  il problema delle singole responsabilità.
L’ape messa in scena ci sta, perciò, provocando a due livelli del pensiero: al primo livello essa è la sua laboriosa socialità; al secondo livello è la sua inevitabile appartenenza a un cosmo sociale più grande, che sembra potentemente decidere di lei. Troviamo qui, forse, una prima risposta alle tre domande essenziali prima formulate. 
Ma la provocazione dell’artista non si esaurisce qui. L’ape messa in scena è ingigantita. Un tale ingigantimento non è solo fisico ma simbolico, cioè percepito nel vissuto. L’ingigantimento simbolico è, qui,  la strategia estetica con cui una forza si fa forma. Una forza d’ispirazione emozionale e ideale si fa forma d’arte. Il guardante percepisce una paradossale inversione del rapporto di forza col guardato. Non è lui a guardare l’ape, ma è l’ape a guardare lui. La grandezza dell’ape sembra far sentire al guardante che è lui a dipendere da lei. Tutto ciò sembra nascondere una più profonda verità. 
È stato attribuito ad Albert Einstein il pensiero per cui il giorno in cui non ci sarà più l’ape, non ci sarà più l’uomo. Sotto la straordinaria laboriosità sociale dell’ape una cosa più essenziale si cela. L’ape è indispensabile alla stessa possibilità dell’uomo di vivere sul pianeta. L’ape impollina le piante, consentendone la riproduzione sulla Terra. Percepisce le temperature. Misura i mutamenti climatici. Consente la vita. 
Renata Petti e Anna Crescenzi realizzano un’ape. Fatta con metalli, paglia, canapa, rami di nocciolo. Le artiste la pro-gettano e la pro-iettano su di noi, per farcene vivere empaticamente l’impatto. Nella profondità dell’atto con cui l’artista riproduce il suo oggetto vive l’inconscio gesto irresistibile di chi sa che, per consentire all’uomo il suo essere uomo, bisogna restituire all’ape il suo ambiente di ape. Se non ci sarà più l’ape, non ci sarà più il  miele. Se non ci sarà più il miele, non ci sarà più l’uomo. L’atto creativo del dar vita all’ape nasconde il bisogno incoercibile dell’artista di ridar vita all’uomo. Dietro l’atto con cui l’artista progetta le parti dell’ape vive la percezione profonda che l’uomo è un parto dell’ape. Il progettante si rivela, in realtà, un parto del suo progettato. L’artista, gettando nel mondo un’ape, ci sta raccontando che tutti gli esseri umani sono gettati nel mondo dall’ape.